La notizia sta facendo rumore. Il ristorante Il Giglio di Lucca, portabandiera di una stella Michelin per ben cinque anni, ha deciso di “restituire” l’ambita onorificenza con un “grazie, siamo apposto così” o giù di lì. Una scelta insolita, che ha fatto storcere il naso a molti, e che, se letta tra le righe, sembra più una mossa strategica piuttosto che un gesto romantico.
Ma ecco i fatti. Gli chef del Giglio hanno dichiarato: “Vogliamo tornare a essere un posto per tutti”, una frase che, per quanto affascinante e intrisa di spirito romantico e democratico, appare più come una dichiarazione d’intenti che maschera un timore ben preciso: quello di evitare di vedersi togliere la stella, piuttosto che abbandonarla di propria iniziativa. Insomma, meglio staccarsi la stella dal petto con un gesto teatrale che ritrovarsi ad essere bocciati dalla Michelin.
La Guida, come sappiamo, funziona con criteri ben precisi, anche se in parte avvolti da una patina di mistero. Gli ispettori Michelin, invisibili e anonimi, fanno il loro ingresso nei ristoranti senza preavviso, assaggiano, pagano e se ne vanno, lasciando dietro di sé un giudizio che può sancire gloria o oblio. Nessuna richiesta di visita, nessun invito ufficiale. Se sei meritevole, rimani nella guida; se non lo sei più, la stella ti viene tolta senza troppi convenevoli. E qui casca l’asino.
Restituzione delle stelle: l’aveva fatto Gualtiero Marchesi
Non è la prima volta che assistiamo a mosse simili. Casi celebri come quello di Gualtiero Marchesi – che nel 2008 restituì le sue tre stelle con un gesto di sfida nei confronti del sistema – fanno scuola. Ma qui la situazione è diversa. Gualtiero Marchesi, il maestro della cucina italiana, restituì le sue tre stelle Michelin nel 2008 con un gesto che fece scalpore nel mondo della ristorazione. Ma il suo atto non fu dettato da un capriccio o da una crisi artistica, bensì da una presa di posizione ideologica contro il sistema di valutazione delle guide gastronomiche, in particolare contro la Guida Michelin.
Le motivazioni di Marchesi erano profonde e ben argomentate. Egli riteneva che il sistema delle stelle Michelin fosse diventato troppo ossessionato dalla categorizzazione e dalla classificazione dei ristoranti, allontanandosi dal vero scopo della cucina: il piacere, l’arte e la cultura. Secondo Marchesi, la cucina non poteva essere ridotta a una scala numerica, a un giudizio freddo e calcolato, privo della sensibilità che dovrebbe caratterizzare l’esperienza gastronomica.
Nelle sue parole, Marchesi affermò che “la cucina è un’arte, e come tale non può essere giudicata attraverso un sistema di punteggi”. Era convinto che la bellezza e il valore di un piatto non potessero essere quantificati e che il sistema delle stelle, per quanto prestigioso, finisse per ingabbiare la creatività e limitare la libertà degli chef. Non voleva che il suo lavoro fosse soggetto a giudizi così rigidi e, soprattutto, non voleva sentirsi in competizione con gli altri ristoranti basandosi su criteri che non condivideva.
Al Giglio, invece, nessuno sembra sfidare la Michelin, né tantomeno rinnegare il riconoscimento. Piuttosto, si percepisce una sottile strategia dietro la facciata di umiltà: giocare d’anticipo, evitare l’imbarazzo di una possibile bocciatura. Perché diciamolo chiaramente: la Michelin non aspetta di essere “scaricata”, e il Giglio ha ben chiaro che non si può “restituire” una stella. Si può solo perderla. E la differenza è sostanziale.
Il comunicato stampa del ristorante, colmo di retorica sulla libertà creativa e sulla necessità di scrollarsi di dosso le pressioni dell’alta cucina, sembra un’operazione di marketing ben orchestrata. Un tentativo di controllare la narrazione, di fare buon viso a cattivo gioco, senza ammettere il vero problema: non riuscire a sostenere gli standard della Michelin. Una volta tolta la maschera di “posto per tutti”, il Giglio si sarebbe trovato a fare i conti con la realtà: se il livello scende, la Michelin non fa sconti. E allora, piuttosto che lasciare che sia l’ispettore a giudicare e sancire la caduta, meglio presentarsi come i paladini della cucina “democratica”.
Il Giglio di Lucca rinuncia alla stella Michelin, ma non c’è nulla da restituire
La “grande rinuncia” assume quindi i contorni di un atto studiato per evitare l’imbarazzo. Insomma, un congedo preannunciato, mascherato da “scelta consapevole”. Del resto, chi ha detto che una cucina giocosa, contemporanea e con un pizzico di anarchia non sia meritevole di una stella Michelin? Se il Giglio fosse rimasto fedele alla sua filosofia, senza necessità di teatrini, la Michelin avrebbe semplicemente valutato il cambiamento e, se non ritenuto degno, avrebbe rimosso la stella.
E qui sorge una domanda: cosa sarebbe successo se il Giglio avesse continuato a fare il suo lavoro, senza annunciare la propria uscita di scena? La risposta è piuttosto semplice: gli ispettori Michelin sarebbero comunque tornati, come sempre, a valutare il ristorante. Se il livello fosse stato giudicato insufficiente, la stella sarebbe stata tolta senza drammi e senza riflettori. La differenza? L’umiliazione pubblica di una retrocessione, invece del trionfante e autoproclamato “ritorno alle origini”.
In fin dei conti, la Michelin non dà la stella per carità, né la toglie per ripicca. Il Giglio è libero di decidere il proprio percorso e il proprio stile, ma la decisione di rinunciare alla stella appare più come una mossa calcolata che una vera necessità di ritrovare se stessi. La cucina, come ogni forma d’arte, evolve e cambia. Ma la verità, che pochi amano ammettere, è che questo rifiuto plateale non è altro che un tentativo elegante di non uscire da perdenti.
Forse gli chef del ristorante Giglio di Lucca avrebbero fatto meglio a comunicare il cambiamento senza proporre la restituzione della stella. Un gesto che avrebbe onorato gli anni in cui la Rossa ha prestato loro quell’attenzione che molti altri ristoranti anelano. La riconoscenza, questa sconosciuta!